Dossier “Sulle nostre spalle – sulla loro pelle”

Mentre postiamo il risultato di un lungo lavoro di ricerca e inchiesta, viene approvato il “decreto sicurezza bis” che possiamo inquadrare come parte dell’obiettivo più ampio di lacerare e disintegrare lo stato sociale residuo (se mai ce ne sia mai stato uno in questo paese) e portare a termine il progetto di una restaurazione in favore delle classi più abbienti di questo paese. Conservatori e progressisti se ne contendono la titolarità. Tutti hanno lavorato, in nome della efficienza del mercato, alla trasformazione profonda del modo di relazionarsi con il datore di lavoro, e l’idea che si ha di sé come lavoratore/trice. Quello del governo Giallo/verde è stato solo l’ultimo atto della guerra preventiva verso la “working class” che ha subito una mutazione antropologica durata un trentennio.

Viviamo e lavoriamo nel paese che santifica Marchionne e disprezza gli indecorosi emarginati sociali. Più che trovare soluzioni concrete, sostenere gli utenti e assicurare loro i diritti essenziali, siamo stati trasformati, da operatori sociali, in “operatori della promessa”, della promessa di un servizio che verrà, del “per ora bisogna accontentarsi di quello che c’è”. Siamo diventati badanti dell’anima. Siamo quelli del contratto a tempo determinato, del “dai così cominci a fare qualcosa”, del “non ti paghiamo ma fa curriculum”. Siamo cresciut* con l’immagine di un futuro meraviglioso fatto di flessibilità e opportunità da cogliere nel nuovo mercato del lavoro, costretti nella trappola della “creatività”, obbligati ad identificarci anima e corpo con il duro lavoro della creazione di una relazione con le persone che assistiamo, con gli utenti di servizi pubblici, stritolati dalla morsa della “spending review”, dell’azienda paese, accettando di essere sottopagati, magari anche dopo qualche mese. Però ci sentiamo tanto educatori, psicologi, sociologi, socio-pedagogisti, professionisti della cura con il conto in banca di un lavavetri e i diritti di un ragazzino nelle miniere di carbone del 1800. Siamo testimoni attivi di un massacro sociale, di un’aggressione fatta di privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica.

Seguendo il modello americano, con la proposta di Regionalismo Differenziato questo governo continua nell’opera di destrutturazione del sistema sanitario pubblico nazionale (nell’ultima manovra sono stati tagliati altri 2 milioni di euro al Fondo Sanitario) per favorirne uno privato, con l’obiettivo di indurre le persone bisognose di cure e assistenza, a rivolgersi alla sanità privata o ai servizi di assistenza privati. La conseguenza più rilevante è l’aumento delle rinunce alla cura e all’assistenza e un peggioramento progressivo delle condizioni di lavoro degli operatori e delle operatrici. Ma noi siamo già dipendenti del privato. Siamo dipendenti di quel privato sociale che ha praticamente inventato gran parte dei servizi alla persona, ma che da tempo è con-responsabile della loro evaporazione. Siamo dipendenti di aziende in competizione per accaparrarsi le briciole dei bandi al massimo ribasso facendoci lavorare in condizioni di massimo ricatto e agli utenti di ricevere un servizio di minima qualità.

Le coop sono le aziende perfette per mettere a disposizione forza lavoro inerme, non conflittuale. Sono le aziende che fondono perfettamente tempo di vita e tempo-lavoro. Perché il nostro non viene considerato un vero e proprio lavoro, ma una missione nei confronti della società. Il concetto di “diritto del lavoro” non è concepito dagli stessi lavoratori, figuriamoci dai nostri datori di lavoro. Nelle Cooperative essere considerati pericolosi se si aderisce a movimenti sindacali o politici, è oramai la norma.

In questo lavoro di distruzione dell’identità di classe, le coop sono consapevoli di poter contare sulla sponda di CGIL, CISL, UIL che tirano, da diversi anni, la volata alle grandi compagnie assicurative (Unipol in testa), l’adesione obbligatoria ai fondi di sanità integrativa e il “welfare aziendale” che coincide con i desiderata di Confindustria. Dobbiamo dimostrare di saperci guadagnare il welfare residuo, o meglio ancora avere un’occupazione che garantisca loro il welfare aziendale. A Maggio 2019 è stato sottoscritto l’osceno rinnovo del CCNL delle coop sociali.(https://socialworkers.noblogs.org/post/category/documenti-e-leggi/ )

Il blog Social workers nasce dalla necessità di trovare strade percorribili per irrompere nella narrazione filo aziendale dei nostri colleghi, assolutamente de-privati della solidarietà reciproca e dispersi nelle dinamiche di concorrenza. Tra il 2018 e il 2019 abbiamo notato che qualcosa si è mosso. Quindi abbiamo cominciato a raccogliere materiale, a partecipare ad incontri nazionali e abbiamo continuato a fare il lavoro di narrazione delle tante sfaccettature che contraddistinguono il nostro lavoro. Nasce così questo dossier.

Scarica qui la rivista dei Social Workers in PDF

SW magazine

Presentazione dossier “Sulle nostre spalle – sulla loro pelle”

Giovedì 27 giugno 2019

Il blog Social Workers presenta il dossier

“Sulle nostre spalle – sulla loro pelle”
Il Social magazine che racconta il non detto del lavoro sociale.

Testimonianze ed esperienze di lotta dalla galassia che compone ciò che rimane del welfare. In vista dell’incontro nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori del sociale
#unaltrocontrattoèpossibile costruiamolo insieme!
https://www.facebook.com/events/2405279019715835/?active_tab=about

Aperitivo dalle 19:30

Alle 20:00 la redazione del blog Social Workers incontra:
Comitato Romano AEC
CLAP – Camere del Lavoro Autonomo e Precario
Lavoratori/trici CUP/reCUP
Operatrice assistenza domiciliare indiretta
Operatrice dell’accoglienza
Operatore assistenza domiciliare in provincia

A seguire:
dj set hip hop/electro by Psycho Juls

CASALE GARIBALDI – common at work
Via Romolo Balzani 87 (Villa De Sanctis)
tel/fax 06 24 403 713 / casale.garibaldi23@gmail.com

bus 558, 412, 105 – fermata Balzani trenino Laziali-Centocelle

 

Sulle nostre spalle // sulla loro pelle

Julkaissut Social Workers Torstaina 27. kesäkuuta 2019

TOUR 180

… “la legge, per il solo fatto di esistere, è importante. Crea infatti discussioni continue, ci smuove e, soprattutto, non nasconde la sofferenza mentale”.  L’anniversario della riforma, allora, è anche un’occasione per rinfrescare la memoria e far luce su ciò che è stato fatto e su quanto ancora ci sia da lavorare. Infatti, sostiene Alberta, “la legge non viene applicata in tutte le sue forme. Mancano la presenza capillare dei servizi di igiene mentale pubblici, aperti 24 ore su 24, dei presidi negli ospedali e la disponibilità di appartamenti nei quali le persone possano essere sì seguite, ma anche libere di vivere la propria vita. In molti posti la legge è mal letta e applicata, non ci si fa carico delle persone. Chi si occupa di welfare e sanità dovrebbe prendersene cura”.

Alberta Basaglia

Vicepresidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia

Tra Maggio e Giugno del 2018, abbiamo costruito un ciclo di incontri con operatori e operatrici dei servizi sociali di Roma. Lo abbiamo chiamato “Tour 180” perché il 2018 coincide con il quarantennale della legge 180, o Legge Basaglia, la legge che stravolse il mondo della psichiatria in Italia. Non è stata una mera scelta opportunistica per dare visibilità al nostro progetto, ma una vera e propria rivendicazione di una legge mai completamente applicata se non disattesa. La 180 fu una vera e propria rivoluzione capace di mettere in discussione, con un lavoro di 10 anni, l’approccio con le persone che da erano recluse nei manicomi, restituendole alla società. Ma i detrattori di questa legge dimenticano (anelando il ritorno alla legge del 1908), o vogliono dimenticare, che i manicomi erano strutture adibite alla reclusione, non solo dei cosiddetti “malati psichiatrici” tout court, ma di tutte le persone fragili con diverse tipologie di disabilità e tutte le alterità che il senso comune, per limiti/confini morali e inadeguate capacità scientifiche, non riusciva a includere nel alveo della “normalità”. Basaglia riuscì ad imporre un nuovo paradigma: cancellare l’esperienza dei manicomi, trasformare la società in “società terapeutica”, una società che cura, che si cura, una società che si prende cura dei suoi elementi “deboli”, dei suoi corpi fragili. La 180 fu precorritrice della legge che costituì, pochi mesi dopo, il sistema sanitario nazionale, la 883. Si gettarono così le basi per l’istituzione dei servizi pubblici territoriali con funzioni preventive, curative, riabilitative e assistenziali. Ma le strutture territoriali sono diventate, nel tempo, terreno per la sperimentazione di un welfare a basso costo. Dopo aver sancito limiti invalicabili alla discrezionalità per i ricoveri coatti e la necessità di costituire percorsi di formazione per il personale, nulla è stato più fatto. Anzi si. E’ stato determinato un graduale dis-investimento nelle strutture territoriali e abbandonato l’ambito dell’assistenza alle azioni virtuose del privato sociale e alle famiglie, tanto da trascinare la professione dell’operatore sociale nell’ambito del volontariato dove è quasi “strano” essere pagati, ricevere un reddito.

Abbiamo scelto Roma perché è la città che ospita ancora il Santa Maria della Pietà e che è stato il più grande manicomio europeo. A distanza di tanti anni, abbiamo provato a fare luce sui servizi alla persona con lo sguardo di chi in quei servizi ci lavora. Lo abbiamo fatto convinti che gli addetti ai lavori, gli operai sociali, ignorano spesso le basi storiche che hanno portato alla nascita di questo mestiere. Siamo convinti che solo conoscendo le radici del nostro ruolo possiamo prendere coscienza del delitto commesso dalle istituzioni il cui unico scopo è spendere poco e risparmiare il più possibile sull’assistenza alle persone oggetto-soggetto d’intervento sociale. Ci siamo confrontanti con tanti colleghi e colleghe e con altri addetti ai lavori: gli psichiatri Piero Cipriano, Teresa Capacchione e gli autori di “Padiglione 25”, Massimiliano Carboni e Claudia Demichelis, insieme a Vincenzo Boatta, ex infermiere del santa Maria della Pietà. Sono stati incontri che ci hanno lasciato tanti spunti di riflessione. Ma la cosa che più ci ha colpiti è stata lo scoprire che la figura professionale degli operatori e delle operatrici sociali era a loro sconosciuta. Noi conosciamo loro, ma loro non conoscono quei tanti/te “lavoratori/trici del sociale” che lavorano nei territori. Abbiamo provato a mettere in connessione, anche se per una sera sola, tutte quelle figure professionali che dal maggio del 1978 Basaglia, con la sua legge, aveva immaginato dovessero lavorare insieme. Ma abbiamo scoperto che così non è. Lavoriamo da anni nel Terzo Settore, chi nelle scuole, chi a domicilio, chi nei centri diurni, chi nelle case-famiglia, e sappiamo bene che non esiste il lavoro di rete auspicato da Basaglia. Esistono solo tante figure professionali atomizzate che lavorano senza confronto e senza scambio, a scapito dell’utenza e degli stessi lavoratori/trici a diretto contatto con l’utenza.

Questo è stato il motivo che ci ha spinti a costituire un blog (Social Workers) e di presentarlo in questo modo. Lo scenario che ha aperto il tour ha superato in peggio le nostre aspettative e ci ha lasciato una prospettiva di lavoro più gravosa di quanto già pensavamo.

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MATTI DA SLEGARE

Alberta Basaglia, figlia dello psichiatra Franco e ospite della rassegna Nuvole, ripercorre a 40 anni di distanza la rivoluzione culturale apportata dal padre a 40 anni: “Mi ha insegnato a voler sempre cercare il senso delle cose, accettandone le contraddizioni”

https://www.lavocedelpopolo.it/garda-e-valsabbia/matti-da-slegare