PAROLE OBBLIGATORIE – PENSIERI NECESSARI

Di fronte a certi eventi, sopraggiunge la desertificazione del linguaggio. Non si trovano più le parole. Quelle che ci sono, ci appaiono insufficienti. Inadeguate. A volte irritanti. Bisogna quindi camminare, resistere, fino a incontrare una oasi. Non potrà offrirci quanto necessitiamo, ci aiuterà però a trovare un piccolo conforto. Attenuerà la sete, seppure non togliendola del tutto.
Quanto accaduto, arrogandomi il diritto di interpretare lo stato d’animo di molti di noi, ci ha tolto il respiro. Come se un colpo di mannaia fosse arrivato, improvviso e inaspettato, sulle nostre esistenze. Un colpo vigliacco, alle spalle. Anche se va dritto al cuore. In questi momenti ci si ritrova disorientati, quasi inermi; il peso è di così grandi dimensioni che si dispera da subito di sopportarlo. Si perde la la lucidità. È esattamente in questi momenti però, che bisogna fare del tutto per recuperarla.

Sembrerebbe un’impresa titanica. A pensarci bene non lo è, paragonata con quella quotidiana di vivere. E di lavorare. In una dimensione difficile, nella quale le difficoltà del vivere di alcuni s’intrecciano con le nostre capacità di alleviarle, quelle difficoltà. Di alleggerirle. Di comprenderle.Proprio in questo complicato nodo risiede molto del lavoro di cura. Della relazione di cura. Poche volte, a mio avviso, ci si interroga sul significato che porta con sé tale “professionalità”. Molto spesso, al contrario, ci soffermiamo sull’aspetto tecnico, sulla mancanza o meno di strumenti adeguati che aiuterebbero a svolgere bene il nostro lavoro. In parte è vero, ma non si esaurisce qui. O per lo meno, non dovrebbe.
L’aiuto offerto a persone in difficoltà non prende origine da una missione.
O peggio ancora, da una vocazione. O comunque, se così fosse, nulla avrebbe a che fare con la dimensione del lavoro. Tutto ciò ha a che vedere con i diritti. In una società che fa acqua da tutte le parti in quanto a giustizia sociale ed equanimità, pretendere che chi avanza a un ritmo più lento della maggioranza sia messo in condizioni di non restare sempre e inesorabilmente indietro, è una questione di diritto. E forse, sebbene per quel che mi riguarda è una convinzione, anche di scegliere. Come chi ha scelto di non deviare lo sguardo dinanzi alle peggiori nefandezze della Storia. Stracolma, fino alle cronache più tristemente attuali, di ogni genere di olocausto. Fare una scelta però, vuol dire anche fare i conti con la propria coscienza. E con quella collettiva. Senza la quale, noi in primis, non avremmo diritto di cittadinanza. Fuor di retorica, ma dentro una ideologia: quella del libero mercato.

In definitiva, l’ideologia vincente.
Non esiste praticamente nessuna attività umana, anche la più nobile, che non sia ormai coniugata a una catalogazione per merci. Un mercimonio continuo e inarrestabile. Tutto ha un prezzo, tutto ha un indice di quotazione. In questo vortice finanziario ci sono finiti dentro anche i diritti. Non si fa nulla per nulla. Se non c’è una contropartita economica, si ricorre ad altri espedienti, come quello elettorale. Che spesso dà anche più utili, alla distanza.
La cooperazione sociale non è nata per fornire ossigeno alle ambizioni imprenditoriali di qualche magnate benefattore. La sua metamorfosi la si deve (in buona percentuale) alla sua inevitabile istituzionalizzazione, una volta compreso il grande sterminato margine di guadagno che si poteva ricavare dalle “aree del disagio”. La politica, e quindi l’economia che conta, ha capito che da quelle esperienze era possibile trarne profitto.
D’altronde, in una fase – iniziata più o meno tra la fine degli anni ottanta e gli inizi degli anni novanta – di progressiva deindustrializzazione del paese, queste aziende del sociale, insieme all’altro coacervo confuso e deregolato che è il settore della conoscenza, hanno rappresentato una delle migliori vie d’uscita al modello-fabbrica (post-fordismo) e alla incombente crisi del capitale.
Non del capitalismo, giacché quello gode sempre di ottima saluta, a quanto pare. Non ci si riferisce più al classico prodotto manifatturiero, o piuttosto non solamente a quello, il cui plusvalore non viene distribuito tra chi lo ha generato con la propria fatica (e con il proprio ingegno) ma reinvestito per accrescere il valore del capitale di origine. Il plusvalore, nel caso del cosiddetto Terzo Settore, è dato dalla osservanza, da parte di lavoratori e lavoratrici, della mission da accettare e condividere e che invece molto sapientemente è messo a profitto da Comuni Regioni Enti Locali in generale per arrivare alle coop sociali che sono gli esecutori finali dell’intervento.
Un intervento che dovrebbe essere pubblico, volessimo attenerci al quel dimenticato manoscritto che è la Costituzione, mentre invece si inerpica su di una filiera lunghissima che lascia a operatori e operatrici sociali solamente le briciole. Non abbiamo neanche a che fare con un capitalismo “serio”, anglosassone per così dire, che almeno mantiene una efficienza e un livello di infrastrutture adeguate. Dalle nostre parti, siamo alle miserie di Mafia Capitale. Ergo, è semplicemente improprio parlare di welfare. In Italia, il welfare non è mai esistito.
Tutt’al più è stato un feticcio da sbandierare in occasione di qualche campagna elettorale. Un simulacro di una società che si vorrebbe civile ma che in realtà naviga su acque limacciose e inquinate. Lontana anni luce da un approdo sicuro.

Vi starete domandando, cose c’entra tutto questo con quanto accaduto pochi giorni fa. Con le atrocità venute a galla in una anonima scuola elementare della periferia, dove quotidianamente prestiamo opera di assistenti.
Cosa c’entra con gli orribili lanci di agenzia in un normalissimo pomeriggio di marzo. Con le gazzelle fuori dai cancelli e con il tintinnio di manette. Con lo sgomento, la rabbia, la incredulità e la incomprensione. Con un essere umano insospettabile colto nel pieno delle sue aberrazioni.
E qui comincia il deserto, per l’appunto; finiscono le parole. Ma non i pensieri. E ritorniamo così a quanto dicevano all’inizio. Dovremmo fare in modo che in questo magma impenetrabile di emotività si apra un pertugio per far spazio a un po’ di lucidità. A costo di apparire, e apparirsi, scomodi e irritanti. Non ho mai creduto, né tanto meno lo credo ora, alla retorica del “siamo una grande famiglia” applicata alla realtà del lavoro. Quale essa sia. E quali che siano le circostanze in cui ci si appella a questo facile refrain.
Credo tuttavia, che indipendentemente dai ruoli e dalle modalità che ognuno utilizza per affrontare fatti simili, si può crescere; individualmente, collettivamente. Non è mia intenzione avventurarmi in ipotetiche spiegazioni o spregiudicate supposizioni da psicoterapia di gruppo.
Sono anzi sicuro che nessuno si sia spinto a farlo. Vorrei però che in virtù di un principio comune di crescita e riflessione, si pensasse con profondità a quante insidie si trascina il nostro lavoro. Spesso, e più spesso in maniera davvero lesiva, inconsapevolmente. Vorrei anche, per quanto atroce e indefinibile, e in effetti questa vicenda lo è, non rinunciare al diritto di di avere un mio punto di vista e alla libertà di esprimerlo. Di metterlo a disposizione, se possibile, per un confronto franco e aperto. E possibilmente proficuo. Per tutti.
Anche per chi si macchiasse della più indifendibile delle violenze. E in effetti, questa lo è. Sono dell’idea che il garantismo non è a geometria variabile o un canovaccio da usare a seconda dei casi. Vale sempre. Per chiunque.
Per chi si odia a prescindere del giudizio che lo attende, come per chi ha diviso con te tempo lavoro chiacchiere discussioni e risate. Fa più male, questo è sicuramente vero. Non siamo in grado però di scegliere tempi e persone che stravolgono la tua vita. Nel bene e nel male.
Queste sono le regole del gioco, se vi si partecipa. Siamo in grado però di individuare degli strumenti che possono essere d’aiuto. Una forma di sostegno la cui efficacia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di renderla tale.
Qualsiasi forma di potere, dalla più grande alla più inavvertibile, si alimenta del silenzio, anticamera dell’autoritarismo. Elimina in questo modo un altro diritto fondamentale: la partecipazione. Sia chiaro che una vicenda giudiziaria così abominevole non è legata, direttamente, al lavoro. Lo coinvolge, che lo si voglia o meno, ci coinvolge; ed è altrettanto vero.
Asteniamoci da ogni giudizio morale, bene e male albergano dappertutto e in ognuno di noi.
Approfittiamo anche della più sgradita delle occasioni per moltiplicare le oasi, e non per ingrandire il deserto.

M.A.