L’INCONTRO

“Ero fermo alla stazione aspettando un treno che non arrivava mai. Non sarebbe mai arrivato. Tutt’intorno un deserto, popolato qua e là da gigantesche cattedrali in fiamme. Cintate da muri insormontabili. Milizie armate a loro difesa. Urla e disperazione al loro interno. Ero seduto su una panchina, potevo vederle dall’alto. Come un uccello in volo. Un predatore.
Un uomo dall’enorme cappello a larghe tese si avvicina, semi-offuscato da un sigaro altrettanto enorme. Vedo le sue mani, sono artigli. Gli occhi incavati senza bulbo oculare. 
I suoi artigli fanno cenno a me di andare. Ha inizio la carneficina. 
Gli fracasso la testa sulle rotaie, ne fuoriesce una specie di sangue nero e denso.
Gli rivolto il sigaro nella bocca, che lentamente, lentamente, lentamente, prende fuoco.
Gli artigli si dimenano come seguissero uno swing immaginario, fino a polverizzarsi. Prendo fiato, rido, mi riaccomodo sulla panchina.

All’istante e all’improvviso, sento nitido il pianto di un bambino. Mi avvicino alla sala d’attesa; non un’anima viva. Sulle traversine giaceva inerme un ammasso di carne e fuoco.
L’atrio della stazione. Una donna impellicciata, grassa e quasi interamente ricoperta di gioielli anelli e collane, picchiava duro su quella creatura. Forse suo figlio, chissà. Il ginocchio pressava sul petto ansimante, lo teneva immobile. La testa della giunonica donna (e della madre spregiudicata?) diventarono due metà esatte, quando assestai il colpo.
Preciso, chirurgico, geometrico. Un’accetta perfetta. Il bimbo riprese a respirare con regolarità, con comprensibile fatica mi fece capire che non parlava. Né emetteva alcun tipo di suoni. Gli venne incontro un’altra donna, eterea e luminosa. Lo prese per mano, mi accarezzò prima che insieme si perdessero nell’orizzonte. Era mia madre.
Non mi sentivo stanco, non ero esausto di tanto fare. Non meno, in ogni caso, di quelle notti insonni in compagnia di quel terribile trapano nella testa che per una eternità mi ha perseguitato.
Ritorno alla panchina. Da non molto lontano arrivano dei suoni, come uno sferragliare.
Dà la illusione di un treno in arrivo. Ma non lo è. So distinguere l’illusione da un inganno. Piuttosto il rumore sordo e rotondo di martelli che battono e bulloni che s’incrociano. L’odore acre dei metalli che bruciano. La catena di montaggio, la mia fabbrica.
Il caporeparto che strappa il libro dalle mie mani, lo dà in pasto alle fiamme implacabili dell’altoforno. La testa mie scoppia, le mie lacrime, il corpo che si dimena, gli occhi fuori orbita, la bava che scende copiosa e inarrestabile. Poi il buio. Poi la fioca luce del comodino che illumina frasi parole numeri come in un turbinio inarrestabile. Una lettera di licenziamento. Poi di nuovo il buio.
Quel suono lontano guida i miei passi, potrei volare ma seguo il mio incedere. Finché non giungo a destinazione. E questa è la scena: una creatura mostruosa, vestita di un candido camice bianco, a colpi di frusta regolari brutalizza la figura esile di un uomo, alle prese con il suo strumento di lavoro. Un colpo, una frustata. Un colpo, una frustata.
Mi piaceva il clima della fabbrica, quasi quanto la letteratura. A scuola non intendevano come potesse integrarsi quel folle amore con la follia. Ai lunghi silenzi spesso seguivano gesti ripetuti con apparente ciclicità. Avevo una passione sfrenata per scarpe rosse cacciaviti e margherite. Così come per le lunghe passeggiate nel parco che provava ad abbellire il mio quartiere. Alcuni ridevano, altri m’insultavano. Quasi nessuno capiva.
Nessuno comprendeva.
Per giustiziare quel camice bianco prendo a prestito il martello dell’operaio. Quale arma migliore? La bestia immonda stramazza al suolo urlando e gemendo, inutilmente. Un ammasso di carne e fuoco. Implorazioni incomprensibili che non mi fanno desistere da tanto desiderio di giustizia. Le mie orecchie non sentono. Sento solo un universo di disumanità, e la scarico su di lui. Una eternità di rabbia. L’uomo, finalmente libero, mi abbraccia e mi omaggia un mazzo di margherite. Lo vedo incamminarsi con le sue improbabili scarpe rosse; si volta sorride e scompare.
Ora sì sono stanco, stremato. Felice. Appagato. Mi libero in volo, passo in rassegna tutto il deserto sottostante. Le cattedrali si spalancano, neanche le fiamme riescono a fermare la massa imponente che travolge ogni ostacolo e ogni muro abbatte. E crollano insieme a quelle ciclopiche costruzioni, inesorabilmente. Ora non sono altro che una montagna di macerie fumanti sulla cui cima danza un esercito di reietti. Ora la milizia è disarmata e fugge al solo loro cospetto.
Io continuo a volteggiare e trafiggo le nuvole, le oltrepasso e le ricompongo.
Sono traiettorie di beatitudine. Di lacrime. Di liberazione.
In questo preciso istante Emiliano si sveglia. Apre gli occhi, nel suo scarno locale risuonano le 7.30 di un anonimo 18 febbraio del 1972. Si prepara per un appuntamento, un appuntamento molto importante. Un incontro. La stanza dista pochi corridoi.
Due ore più tardi racconterà della notte appena passata. All’interno è già predisposta una fila disordinata di cacciaviti, di ogni tipo. Di ogni misura, di ogni colore. Ora può entrare.
“Buongiorno dottor Basaglia. Sogno, dunque sono.”

M.A.