TRACCIATI SOTTERRANEI

Viaggio nella metro C nel pomeriggio autunnale di Roma. Nei dintorni i corpi seduti si rispecchiano stanchi negli schermi dei dispositivi, alcuni rompono le palle colorate ed altri si occupano di se interagendo nella grande rete virtuale, infine sopra alcuni immagino la nuvoletta con il pensiero “ questo lavoro mi sta uccidendo”. Gli ultimi saliti a bordo sono appesi come con le crucce ai sostegni, qualcuno ascolta la sua musica preferita, pochi coraggiosi con una mano tengono aperto un libro da leggere mentre il treno avanza con ritmo sincopato verso est senza che il conducente sia visibile. Tra questi ultimi, scorgo un volto che mi è familiare. Ci osserviamo in silenzio.

Riconosco il ragazzo, ma non mi sarei mai aspettato di incontrarlo in questo contesto. Ho dei dubbi. Forse è uno della dozzina di fratelli. O ha reincontrato la sua famiglia e gira per Roma. E se fosse scappato dal paesino come aveva provato a fare alcune volte salendo sul Cotral che passava dopo il pranzo? Aveva sempre fallito perché c’era sempre qualcuno della comunità che lo riconosceva. Così il Cotral tardava 5 minuti la ripartenza nell’intento di farlo scendere. In quei momenti lui godeva nell’essere perseguitato ed alimentava la tensione rivolgendo epiteti ai malcapitati di turno. Le scene si chiudevano con il solito mantra dei paesani: “Non dovrebbero lasciarlo da solo sto poveraccio!”. Passati i 30 secondi, la clessidra inghiotte tutti i granelli del flashback e mi acccorgo che a lato di Giacomino c’è il nuovo responsabile della Casa Famiglia in cui avevo lavorato per un anno e mezzo. Mi muovo diretto verso di loro e ci salutiamo. Giacomino è sereno, nonostante l’emozione che ci percorre sia intensa. Mi dice che sta bene, che prosegue con gli studi e che sono usciti per una gita. Lo vedo più tranquillo. Il responsabile mi dice che la situazione in Casa Famiglia è cambiata e di conseguenza anche i ragazzi risentono del miglioramento dell’ambiente in cui vivono. Rimaniamo d’accordo per cenare insieme in C. F. e mi ritrovo sulla banchina per ritornare a casa. Mi dirigo verso la superficie del quartiere dove vivo, non senza ripercorrere nuovamente, salendo i gradini, di un’esperienza intensa e difficile occorsa diversi anni fa nel mio lavoro come operatore sociale.
Ricordo ancora, in una casetta del centro storico, quel pomeriggio del colloquio in cui il direttore della Casa Famiglia mi augurava di apportare una ventata di cambiamento all’interno della struttura e soprattutto mi ripeteva che avevano bisogno di gente propositiva e che pensasse. Anche il livello contrattuale non sarebbe stato male visto che mi offrivano, per la prima volta nella mia vita, il C3. Certo, c’erano da fare i turni di notte, ma si poteva anche riposare visto che si stava di “vigilanza”. Tutto sembrava promettere bene tanto che, nel giro di pochi mesi, dopo tre giorni di prova e inserimento, ottenni un primo contratto a tempo determinato. Nei primi giorni il responsabile sembrava volermi come braccio destro e si lamentava tutto il tempo delle mie colleghe.

La mia situazione di “privilegiato” durò poco. Alla prima riunione di equipe denunciai che non ero d’accordo con i metodi punitivi e autoritari usati con i ragazzi. Avevo visto scene tristi. Per esempio avevo visto Giacomino minacciato da un’operatrice per la terapia. L’operatrice avvicinava una mazza alle mani del poverino quando cominciava ad agitarsi finché, sentendosi perseguitato, si arrendeva. E questo sistema era approvato e rafforzato da chi “comandava” la struttura. Quando mostrai i miei dubbi in riunione, apparse stupore sui volti dei partecipanti ed i responsabili oscillavano tra il negare gli episodi e sottolineando che solo loro sapevano le gravi condizioni di partenza del ragazzo. Le altre colleghe, che avevano condiviso in privato la loro riluttanza a questi metodi pedagogici, tacquero quando il direttore si rivolse a loro per chiedere se riscontravano dei problemi. Il silenzio di quelle colleghe fu ciò che più mi addolorò.

In seguito cambiò tutto. Chi faceva il turno di notte, oltre ad accompagnare a letto bambini e ragazzi che avevano già vissuto precocemente ogni tipo di trauma ed abusi, ora doveva fare le pulizie di tutta la casa, le lavatrici e curare la parte delle scartoffie (relazioni, schede, conti, fax). Poi iniziai a scoprire che tra i compiti da svolgere, quando era il mio turno di notte, c’era un sovraccarico di pulizie straordinarie.

I giorni passavano ed il mio intervento aveva sortito un blando effetto. Da una parte il ragazzo non veniva più trattato, quando ero presente, in maniera “coatta” anche se veniva minacciato in continuazione. Con lui non era facile. Gli piaceva provocare e spesso si lanciava sugli ospiti più piccolini mimando atti sessuali o alzando le mani o graffiandoli, visto che anche loro avevano imparato a sgridarlo e picchiarlo. Più di una volta l’ho dovuto letteralmente trascinare via da situazioni vicine al linciaggio che mettevano in pericolo gli altri o lui stesso. In quei momenti sentivo che la “parola” aveva perso, aveva perso la “relazione” e la frustrazione aumentava data l’impossibiltà di intervenire in modo adeguato. Oltretutto i responsabili mi additavano perché ritenevano che non ero sufficentemente duro con Giacomino. Il mio lavoro non andava bene. Cercavo di tessere relazioni per sviluppare progetti con realtà associative del paese ma puntualmente venivo bloccato. Cercavo di fare rete sul territorio, in un piccolo comune, dove la predisposizione degli abitanti ad entrare in relazione era connaturata. Ma le mie proposte venivano bocciate, così come veniva squalificato il mio lavoro educativo al cospetto delle mie colleghe che restavano in silenzio.

Era sorto anche un gruppo informale su whatsApp dove, con le lavoratrici frustrate, vomitavamo il malessere quotidiano oltre che le imprecazioni. Al principio pensavo che potesse scaturire un’esperienza di lotta. Presto, però, mi resi conto che mi sbagliavo. Non si riusciva ad andare oltre il chicchiericcio durante la pausa sigaretta o il lamento virtuale.
Capivo che la ricattabilità era alta, dato che gli stipendi venivano elargiti in tempi diversi ad ognuno di noi e c’era chi aspettava da 6 mesi il salario.
Sulla puntualità ero stato chiaro fin dall’inizio con i dirigenti della cooperativa che nel mio caso al massimo avevano tardato due mesi.
Però continuavano le forme di mobbing nei miei confronti. Le notti erano diventate un incubo e, quando disobbedivo ai compiti, il responsabile mi metteva contro le colleghe che svolgevano il turno di pomeriggio. Lui si metteva in turno sempre e solo la mattina quando tutti gli ospiti andavano a scuola. Con il tempo si scoprì che usava quei turni per studiare o non si presentava proprio nonostante firmasse la sua presenza.
Ho assistito alle dimissioni di un’operatrice durante il primo mese. Purtroppo molti, coinvolti anche dalla situazione precaria, a livello affettivo, degli ospiti, preferivano non aggiungere altri traumi legati all’abbandono.
Dopo il turno di notte, quando ritornavo a casa, guidavo come un zombie perché non riuscivo a chiudere un occhio e diverse volte ho rischiato di provocare un incidente mortale. Le mie colleghe non erano disposte ad organnizarsi. Avevo molto chiaro che in realtà portavamo avanti il difficile lavoro di relazione con gli ospiti. Senza di noi sarebbero rimasti nella melma. I ragzzi ed i bambini avevano costruito una relazione di fiducia con noi e li sostenevamo la sera quando “sbroccavano”. Eravamo indispensabili ma non c’era questa consapevolezza tra chi lavorava.
Finalmente arrivò il momento di lasciare. Chiesi che non mi venisse più rinnovato il contratto. I responsabili chiesero di rito il motivo della mia scelta. Risposi seccamente che non mi sentivo più motivato senza dare altre spiegazioni. Dopo qualche giorno un’altra collega fece lo stesso e quando il mio sostituto, l’attuale responsabile, presentò le dimissioni la cooperativa si dovette ravvedere.

Così mentre ritorno in superficie dal ventre della città, penso a questo episodio come ad altri che sono collegati tra loro a quel momento di rottura. Da quella esperienza in poi ho iniziato a cambiare la mia visione del lavoro. Ho iniziato a frequentare un raggruppamento di operatrici ed eoperatori sociali per conoscere i miei scarsi diritti e soprattutto per costruire complicità con altre ed altri che vogliono vivere con dignità. Per cui ci raccontiamo, solidarizziamo, ci confrontiamo e riflettiamo sul nostro lavoro.

A. T.