UNA GIORNATA PARTICOLARE

La storia che racconto ha inizio nel torinese nel 2006 ed ha bisogno di una premessa. All’epoca lavoravo come operatore addetto alla manutenzione del verde e quando le condizioni climatiche impedivano il lavoro, in una casa famiglia di un’associazione noprofit. Quest’associazione, nel corso degli anni 80 aveva costituito una cooperativa di produzione lavoro che poi aveva cominciato fornito ai suoi soci un paio di strutture abitative dove cominciò ad integrarsi un progetto terapeutico per gli ospiti. Nel 1998 il fondatore di questa cooperativa morì lasciando ai soci il compito di proseguire il lavoro. Il consiglio di amministrazione, era costituito in prevalenza da persone della Conf Cooperative di Torino.

Dalla morte del presidente e fondatore al 2008, quando arrivai io, era passata tanta acqua sotto al ponte e di quella grande intuizione e spinta “trasformatrice e sociale “ degli anni 80 era rimasto solo il ricordo dei soci fondatori, tutti adulti con esperienze di psichiatrizzazione molto intense e che avevano trovato nel binomio casa-lavoro uno strumento per pensarsi restituiti alla “normalità.”
Il protagonista della storia è un socio-lavoratore, Ferruccio, allora cinquantenne, seguito dai servizi sociali dall’età di 17 anni, dipendente da alcool e droghe, in terapia farmacologica da anni, con esperienze di carcere per piccoli reati. Ferruccio era un vero caso umano e sociale, una persona difficile, scontrosa, ma anche molto fragile. Di origine contadina, viveva tra la casa famiglia della cooperativa, dove faceva il cuoco, e la casa dove ancora viveva il padre di 97 anni. Data l’esperienza maturata sia a Torino che a Roma come giardiniere e come operatore, venni nominato capo squadra per gli appalti di 5 comuni della provincia di Torino che gestivo con una squadra di 4 operatori tra cui Ferruccio.
Fatta questa premessa necessaria, passo ai fatti che secondo me mettono in luce alcune criticità e crudeltà sia del sistema che ruota intorno alle cooperative sociali fatte di appalti e gare che hanno nel massimo ribasso dei costi della mano d opera il loro maggiore elemento di competitività, che della reale natura del lavoro cosiddetto sociale che solo la retorica riesce ancora a mostrare aldilà della reale portata delle cose.

Come tutte le mattine da qualche mese, io e Ferruccio siamo i primi ad arrivare al garage magazzino della cooperativa per preparare gli attrezzi e iniziare a ragionare sull’organizzazione del lavoro giornaliero. Poi alla spicciolata arrivano tutti e, dopo la rituale riunione di squadra che ho introdotto come novità per costruire il senso del gruppo, si parte per il lavoro. Dopo aver caricato il camioncino, si parla della sera precedente dove tutti insieme abbiamo assistito al concerto del gruppo di Michele, un ragazzo down che lavora con noi. Michele ha costituito una Rockband con un nome simpatico, ”i badola”, “stupidi ma senza offesa”. Badola è un termine del dialetto torinese che si usa per definire un imbranato.
Quel giorno arriviamo in una scuola, è primavera, fa caldo e i bambini sono in giardino. Noi aspettiamo che rientrino nelle aule per iniziare a scaricare gli attrezzi e nel frattempo andiamo a farci un caffè. Al ritorno, scarichiamo gli attrezzi e iniziamo a lavorare. E’ bellissimo vedere i colleghi essere finalmente una squadra che condivide un lavoro e ognuno aiuta l’altro nel bisogno, non era cosi prima che io arrivassi e loro mi hanno raccontato mille storie al proposito. Prima che io arrivassi si lavorava e basta, si partecipava alle assemblee dei soci e basta, si votava ma senza sapere per cosa e per chi. La cooperativa era divisa in due, da una parte i lavoratori e dall’altra i matti. In ragione di questa distinzione, lo stigma era diventato identità e i soci seguiti dai servizi di salute mentale venivano usati per i lavori meno qualificanti e più sporchi.
Ci rimangono un paio di giardini da fare, ne facciamo uno, l’ultimo lo lasciamo per il giorno dopo perché riteniamo che non avremmo fatto in tempo con l’orario di lavoro.
Prima di tornare in cooperativa, come tutte le sere, ci fermiamo a prendere un caffè e ci fumiamo la sigaretta dei saluti. Rientrati in cooperativa, vengo chiamato in ufficio, dove mi aspettano il presidente, il tecnico del comune e una persona che non conosco.
La persona che non conosco è il presidente di una altra cooperativa sociale del territorio con cui ci si divide le aree di intervento (siamo nel 2008 e nessun comune è trasparente nella gestione degli appalti del sociale, tutto viene gestito in virtù di vicinanze politiche e elettorali, vedi mafia capitale a Roma).
Mi comunicano che esternalizzano me e la squadra alla cooperativa in questione, che stava entrando di ufficio nella gestione del verde pubblico (tra l’altro cooperativa sociale di area cattolica e che ha guarda caso come presidente un membro di una famiglia molto chiacchierata per presunti legami con la ndrangheta). Chiedo informazioni su orari e compensi perché capisco la musica ma non mi piace lo spartito. Mi dicono che io e la squadra restiamo a carico della cooperativa originaria, che il nostro è un lavoro di supporto per far si che i nuovi non abbiano problemi coi tempi di consegna dei giardini e delle scuole, ma che dovremo dipendere dal capo squadra di quest ultima. La modalità con cui viene gestito l’incontro è assolutamente autoritario e non lascia spazio alla discussione, prendere o lasciare. Esco dall’ufficio, avvilito e convoco una riunione con il resto dei lavoratori nel quale illustro la nuova situazione. Lo stupore è grande. Il giorno dopo io e Ferruccio arriviamo al lavoro e troviamo già i dipendenti dell’altra cooperativa. Il loro caposquadra ha già preso il controllo della situazione e senza chiedermi nulla organizza il lavoro e le squadre disperdendo il mio gruppo tra le altre. La parola d’ordine è produttività. Arriva una chiamata dalla mia cooperativa e mi dicono che Ferruccio ha avuto una crisi ed è stato portato all’ospedale per un TSO. Lascio il lavoro e dico ai miei colleghi di continuare senza di me.
Le persone nuove e l’aumento del ritmo di lavoro hanno fatto in poche ore la prima vittima.
Torno in cooperativa e trovo una lettera di richiamo che mi rimprovera di aver avuto un atteggiamento non professionale e di aver abbandonato il posto di lavoro senza autorizzazione. In un secondo mi crolla il mondo sotto i piedi, mi si ripresenta il lupo travestito da agnello che ho conosciuto in tutte le cooperative sociali nelle quali avevo lavorato fino ad allora. Indico una riunione straordinaria e chiedo la presenza di tutti i membri del CDA e i soci della cooperativa. In un primo momento l’atteggiamento è molto aggressivo, si comportano come padroni senza ritegno. Rammento a tutti che la cooperativa è dei soci prima di tutto, minaccio di denunciarli alla stampa e di fare intervenire il sindacato. Mi prendono sul serio e accettano il confronto collettivo.
In una piena di persone, faccio presente che la questione di Ferruccio in ospedale mina la storia, l’identità della cooperativa e del suo fondatore. Dissi che quello che era accaduto aveva delle responsabilità chiare; per nessun motivo avremmo dovuto permettere che un nostro socio venisse sottoposto ad un TSO per una crisi scatenata perché chi doveva vigilare e preservare la sua salute era stato sostituito da un capo squadra. La cooperativa doveva salvaguardare la salute delle persone e garantire una qualità del lavoro tale da distinguerlo dal lavoro comune e se ciò non è avvenuto le responsabilità andavano chiarite e i problemi risolti.
La sala gremita e rumorosa sostenne le mie posizioni e contestò le argomentazioni a difesa del CDA. Dopo un paio di ore si convenne sulla necessità di ritrovare una armonia tra i soci e il CDA si impegnò a trovare delle soluzioni alternative a quelle che avevano creato le condizioni per la crisi di Ferruccio.
Da una condizione di “qualità” in cui era parte di un lavoro condiviso e paritario, nel quale poteva misurarsi con le sue fragilità e i suoi limiti, nel giro di due giorni Ferruccio si era ritrovato a lavorare in una condizione dove l’unico dettame era quello di lavorare senza fare storie, senza fare pause, senza mettere mano agli attrezzi considerati pericolosi.
In un solo giorno era esplosa la massima delle contraddizioni che minano la cooperazione sociale, che si arroga l’ambizione di farsi impresa senza coinvolgere in maniera paritaria e democratica ogni membro. Il ricovero di Ferruccio era diventata, a caldo, la molla e il movente per rilanciare la storia del movimento cooperativistico e trarne le migliori suggestioni. Quella sera andai a mangiare la pizza con alcuni dei soci fondatori di quella cooperativa che stava da anni perdendo di vista il suo mandato storico. Il padre di un collega diagnosticato con molta fretta “schizzofrenico” mi ringraziò per avergli fatto ritornare alla memoria il presidente storico costretto su una sedia a rotelle dopo un grave incidente, un cooperante della prima ora, un “basagliano” doc famosissimo in quegli anni a Torino. Secondo lui era resuscitato nelle mie parole in quella stanza gremita e marcia di fumo.
Questa storia è la più importante tra le tante capitatemi in questi ventiquattro anni di lavoro nel sociale perché ha un lieto fine…
Una tragedia trasformata in opportunità
Dopo quell’assemblea i soci tornarono a vivere la realtà associativa della cooperativa, molti genitori si riaffacciarono in qualità di osservatori e garanti di trasparenza e legalità, i servizi di salute mentale riallacciarono i fili con il CDA e istituirono un canale privilegiato di ascolto, una sorta di super visione superpartes. Il CDA stesso rimodulò a suo beneficio il rapporto con l’altra cooperativa. Oggi la cooperativa continua ad esistere e Ferruccio è il vice presidente onorario.

A. P.