IN PUNTA DI PIEDI

Se volete un lieto fine, questo dipende, naturalmente, da dove interrompete la vostra storia.

Quando si racconta una storia che ha a che fare con la disabilità, di solito si racconta di sofferenze e disperazione. Sia chi racconta che chi la vive immagina, la, tra le pieghe, nascosto, un lieto fine. Con il passare del tempo, si comincia a considerare un lieto fine anche ogni piccolo cambiamento, ogni piccola evoluzione. Un espediente effimero, necessario alla sopravvivenza dei familiari e degli operatori che sui singoli casi spendono la propria vita professionale ed emotiva. Un gioco simbolico che permette di andare avanti ad entrambi, operatori e famiglie, e non cadere nelle forme depressive che spesso incontriamo nelle nostre esperienze quotidiane.

Un gioco di sopravvivenza che comprendi solo se sei conivolto personalmente, solo in quel caso lo sai, prendi consapevolezza. Se accade ad altri si rimane all’oscuro, non si hanno gli strumenti adeguati per comprenderne la portata. Quando per esempio nasce un figlio o una figlia disabile, non puoi provare neanche una piccola parte del dolore provocato da quella lama che si conficca nel petto dei suoi genitori. E’ come se piombasse, nella loro vita e in quella di tutta la famiglia, uno spartiacque pesante, un muro di cinta ciclopico, uno stravolgimento perenne che, se si tentasse di descriverlo, si potrebbe usare forse un termine giuridico: fine pena, mai. Quando poi si scopre che il figlio, nato da due anni, è affetto da sindrome dello spettro autistico, la lama è doppia perché la percepisci sovraccaricata di un certo grado di cinismo. Per due anni sembra che tutto proceda nella normalità. Poi all’improvviso piccoli segnali, piccole distorsioni nei comportamenti del bambino cominciano a donare un retrogusto amaro alle proiezioni nel futuro ma getta anche delle ombre sulle scelte fatte nel passato. Dove abbiamo sbagliato? – si chiedono i genitori – Cosa abbiamo fatto per provocare un danno di tali dimensioni? La sindrome dello spettro autistico è una diagnosi che pare non concedere vie d’uscita e rischia di scuotere dalle fondamenta la vita di tutta la famiglia, travolta da un misto di sensi di colpa, inadeguatezza e ansia per il futuro immediato. Poi c’è quell’automatismo che scatta nella testa del genitore per cui ogni minima energia dovrà essere utilizzata per risolvere il problema, per risolverlo in parte almeno, per rendere la vita del figlio praticabile e accessibile. Magari, con il duro lavoro qualcosa migliora e poi magari…un giorno chissà?…una guarigione…chi può giudicare chi si fa sfiorare da tale ipotesi?
Non tutti reagiscono allo stesso modo. Alcuni genitori non riescono ad accettare la tragedia che li ha colpiti e creano uno squilibrio ulteriore nella già fragile economia emotiva della famiglia e nel progetto educativo a venire.
La vita non è eterna e i genitori, un giorno, non ci saranno più e nessuno li sostituirà in modo adeguato. Per qualche ora alla settimana diversi soggetti, a vario titolo, entrano in gioco per tentare un sostegno, ma per qualche ora, solo qualche ora. Il resto del tempo è tutto a carico della famiglia. Quindi tale preoccupazione è assolutamente e tragicamente reale, visto che il sistema dei servizi sociali si basa principalmente sulla presa in carico della famiglia.

Questo è il contesto in cui si infila improvvisamente uno sconosciuto mandato da una cooperativa su indicazione dei servizi sociali. L’assistente domiciliare irrompe la dove si è verificata la rottura di un equilibrio apparentemente perfetto che tiene insieme tutte le fila della vita e che da un senso al tutto, anche agli aspetti relativi alle singole persone che compongono il nucleo familiare. Se qualcuno mi chiedesse che lavoro fai, per rendere bene l’idea direi che “provo a rimettere insieme i pezzi di esistenze frantumate”. Sarebbe meglio dire che “sostengo un’operazione di riaggregazione”. E’ come se mi trovassi, per un lasso di tempo, davanti ad una scatola di puzzle che è stata appena rovesciata e domandarmi tra me e me: …e ora da che parte comincio? E piano piano, associando colori e forme, provo a ri-coagulare dei piccoli insiemi, con calma, senza fretta.
Quando entro in una casa dove vive un disabile, lo faccio in punta di piedi, possibilmente in silenzio, mostrando voglia di ascoltare e di accogliere. Ma se entro in una casa dove vive un ragazzo autistico, dovrei essere fornito di silenziatori ai piedi o dovrei imitare un danzatore classico per occupare meno spazio possibile quando mi trovo sulle punte.
Due sono gli scenari che l’operatore sociale si trova difronte solitamente.
Il primo è il caos generalizzato, di un contesto familiare devastato dove il ragazzo autistico è allo stato brado e la famiglia non ha alcun controllo della situazione.
Il secondo è quello in cui i genitori vivono esclusivamente in funzione del figlio. Ogni “battere di lancetta” segna il susseguirsi di un progetto quotidiano di attività. Ogni tipo di progetto personale scompare, sostituito da piccole e importanti conquiste e da piccole e grandi frustrazioni. Non c’è spazio per nessun tipo di relazione che non sia collegata alle necessità del figlio. Niente relax, nessun riposo. Guai! Se così fosse, anche per pochi minuti, i sensi di colpa sarebbero devastanti.

Cristian ha 16 anni, è a medio funzionamento e appartiene al secondo scenario. Ha una buona capacità di linguaggio che gli permette di avere un’interazione con i mondi di cui è composto il mondo. Ha i suoi riti che si ripetono e con i quali costruisce i suoi spazi di sicurezza, ha una gran voglia di imparare e di essere in grado di fare da solo.
La sua condizione è il risultato di un duro lavoro svolto nel tempo dai genitori che hanno sempre riempito la sua vita di attività educative e di socializzazione. E’ sempre stato circondato da tecnici che hanno lavorato sul suo linguaggio e sullo sviluppo delle sue abilità. Ovviamente si parla di attività private, a pagamento. Io e un mio collega, assegnati al caso dalla cooperativa, ci siamo trovati inseriti in un’equipe di altri tecnici (una psicoterapeuta, tre educatori) con i quali abbiamo fin da subito concordato e condiviso modalità d’intervento e obbiettivi da raggiungere. Ognuno con la propria specificità contribuisce ad un progetto che viene verificato con incontri mensili. Gli obiettivi del nostro intervento li abbiamo sempre comunicati alla responsabile del servizio della cooperativa solo in un secondo momento. Fantastico! Nel corso della mia vita da operatore, non mi era mai capitato di sentirmi così. Avere la consapevolezza che ogni azione fatta su Cristian è parte di un progetto empirico chiaro, visibile, concordato, messo a verifica in itinere. Il mio lavoro, per una volta, ha un senso.

E’ giovedì. E come tutti i giovedì ci prepariamo per uscire di casa per andare in un centro giovanile che conosco da anni. Durante il percorso tra casa e centro, ogni cosa diventa laboratorio: scegliere la strada, imparare ad attraversare, salutare e approcciare persone che già si conoscono o da conoscere, salutare tutti, leggere il semaforo, memorizzare diversi percorsi, affidarsi ad una nuova insegnante e imparare ad utilizzare un nuovo strumento per osservare il mondo.
Cristian ballonzola e saltella tra la sua stanza e la sala da pranzo, dove sto parlando con la madre. Lo facciamo sempre prima di uscire, lei descrive la sua relazione con Cristian e le sue attività in mia assenza, condividiamo le cose che sono accadute, mi racconta della scuola, delle lunghe camminate che sono costretti a fare per scaricare la tensione, ci prendiamo un po di tempo. Tempo che Cristian vorrebbe per se e quindi continua a chiamare la madre o me, sospinto da una certa eccitazione.
Prima di uscire di casa, tra un mucchio di cianfrusaglie, mi cade l’occhio su una scarpa di cartone, la prendo. E’ un semplice pezzo di cartone al quale è stata data la forma di una scarpa colorata e sono stati fatti dei buchi dove passano i lacci, proprio come una scarpa vera. La mamma mi racconta di come gli altri educatori, quelli privati, abbiano provato ad utilizzarla per far esercitare Cristian ed insegnargli ad allacciarsi le scarpe da solo. Purtroppo lo strumento è stato abbandonato perché la pratica di allacciarsi le scarpe, molto probabilmente, secondo loro, potrebbe essere fuori portata, Cristian non riesce proprio, va in ansia. Bene.
Da oggi in poi, nella borsetta dove mettiamo le cose utili per stare fuori, cioè la tessera dell’ATAC, i fazzoletti e il portafoglio, ci sarà anche la scarpa. Per qualche mese le nostre passeggiate sono state caratterizzate da lunghe pause occupate dall’esercizio sulla scarpa. Quel tipo di esercizio, con il tempo, si è trasformato in un nuovo spazio di sicurezza per Cristian, a tal punto che ha cominciato ad essere lui stesso a chiedermi di esercitarsi.
Un giorno qualunque mi arriva una foto whatsup…Cristian si allaccia le scarpe da solo, non solo, anche i pantaloni della tuta, lo zaino e qualunque cosa necessiti di lacci.
Lui e i suoi genitori sono al settimo cielo. Il tempo passato a fare e di-sfare lacci, a relativizzare la sua frustrazione nel fallire i tentativi, è diventato improvvisamente lieve, è diventato un lieto fine.