HO VISTO COSE CHE VOI UMANI…

Non saprei dire qual’è il motivo preciso per cui lavoro nel sociale, non ricordo neanche quando ho scelto di intraprendere questa strada. Ricordo però che, fino a qualche anno fa, alle domande “che lavoro fai? Perché?”, avrei risposto che “ho curato attentamente la mia formazione e quel che faccio mi piace, mi soddisfa e mi fa stare bene”. Ora le cose sono cambiate ed il risultato è che non mi sento più a mio agio. Ogni giorno provo come posso a sciogliere i nodi di matasse ingarbugliate ma non arrivo a nulla. Sento di restare sempre intrappolata tra burocrazia, regole delle Cooperative Sociali, impossibilità di far valere la mia professionalità.

Attraverso la partecipazione ai soggiorni estivi con le persone disabili, ho potuto vivere e monitorare un cambiamento progressivo ed inesorabile.
Per dieci anni, ogni estate, ho preso parte ad almeno tre soggiorni di dieci giorni ognuno, suddivisi in base alla gravità degli utenti. Posso assicurarvi che “ho visto cose che voi umani…”, ma li ho fatti sempre con piacere. Ogni volta li ho considerati come la prova del nove di un intero anno di lavoro con gli utenti che assisto in domiciliare, con i miei soliti utenti, quelli che hanno fatto un percorso con me una o due volte a settimana e che conosco come le mie tasche. Li ho portati al mare, in piscina, mettendo in pratica tutto quello che abbiamo sperimentato insieme a casa, per tutto l’anno. Non sempre tutto è andato liscio come l’olio ma è normale: dieci giorni fuori casa, in un posto nuovo, senza i tuoi spazi, con ritmi diversi, ogni cosa ha il suo peso emotivo. Quest’anno, per la prima volta, ho deciso di non dare più la mia disponibilità a partire.
Basta! Ora basta.
Tre o quattro anni fa, ho cominciato ad assistere al taglio progressivo dei fondi. I giorni di permanenza sono sempre dieci, ma il rapporto operatori/utenti è calato progressivamente. Lo scorso anno mi hanno proposto di fare, da sola, il soggiorno con la solita utente che normalmente prevede una doppia operatrice. Federica è autistica, psicotica grave e con un ritardo mentale medio/grave.
No! Solo io no. Ho risposto. “Del resto sei l’unica operatrice disponibile che la conosce da tempo…” mi dicono. Poi aggiungono con nonchalance “…sei tanto brava e tanto professionale e noi sappiamo che tu puoi farcela e poi conosci la lingua dei segni e quei poveri sordi a chi li diamo?” – Mi appioppano pure i tre sordi che seguo d’inverno.
Faccio presente che è impossibile conciliare i due gruppi. Federica urla, picchia chiunque, scappa, vuole uccidere tutti i bambini, i cani e i gatti che incontra, odia la gente in generale, ha bisogno di mangiare da sola, in silenzio, altrimenti ti pista di botte. Se c’è troppa confusione piange, perciò, per farla rilassare, spesso devo portarla a passeggiare, o in camera ad ascoltare musica. La sera, dopo cena, è quasi d’obbligo portarla a mettere i piedi a mollo, in riva al mare, mentre tutti sono a vedere lo spettacolo organizzato dall’animazione. L’altro gruppo, quello dei sordi, invece ama socializzare, ballare, far casino e fare tardi la sera. Hanno bisogno di una persona che li aiuti a comunicare e allora mi cercano, mi vorrebbero accanto. Io però sono con Federica in camera, o al mare a bagnare i piedi e a guardare la luna, o in giro a passeggiare.
Conosco Federica da dieci anni, sono stata la sua A.E.C alle scuole medie e poi ogni anno siamo partite insieme per i soggiorni estivi. In domiciliare non l’ho mai seguita ma altre mie colleghe si. Durante le rare riunioni d’equipe, si parlava di lei e ci siamo sempre scambiate le informazioni le une con le altre. Poi la scuola è finita, Federica è cresciuta e ha cominciato a frequentare un centro diurno all’aperto che lavora con gli animali. L’assistenza domiciliare le è stata sospesa: troppi morti, troppi feriti, nessuna volontaria da mandare in trincea ma soprattutto nessuna con l’intenzione di voler fare una domiciliare “singola” con lei, cosa che invece chiede la famiglia. Ormai non è più possibile andare da sole con lei, ma non ci sono ore a disposizione, non ne pagano di più.
Quindi la responsabile decide che si deve fare assolutamente la doppia con le stesse ore a disposizione. Le ore si dimezzano e invece di uscire due volte a settimana si esce una volta sola, con due operatrici. La famiglia gradisce questa soluzione e decide di chiedere l’indiretta, dove le ore sono di più e non ci sono cooperative di mezzo ad imporre due operatrici. Dopo un paio di mesi nessuna operatrice dell’assistenza indiretta accetta il caso, scappano tutte, “chissà perché?”.
Risultato? Federica è rimasta sola, senza assistenza domiciliare, frequenta un centro diurno tra animali e carriole da spingere e, per dieci giorni l’anno, torna ai soggiorni estivi, sempre con me.
Il centro diurno all’aperto che frequenta lo conosco poco, non conosco nessun operatore, non c’è dialogo, non c’è nessuno scambio d’informazioni. Eppure oltre a Federica, il centro ospita anche altri utenti che ho in domiciliare o che partono con noi per i soggiorni estivi. Manca lo scambio, una comunicazione efficace, un intervento comune, un lavoro di rete. Ormai vedo Federica solo quei dieci giorni, non conosco più nulla di lei, non conosco quali cambiamenti ha fatto, nessuno mi racconta delle sue giornate. Lei non parla, urla. Al massimo ripete qualche parolaccia sentita in giro. In quei dieci giorni mi becco solo schiaffi perché magari dimentico qualche sua abitudine o perché non capisco il suo disappunto per qualcosa. Mi sento un parcheggio, un ricovero di dieci giorni per disabili.
In queste condizioni il segnale è chiaro: non è necessario conoscere i ragazzi, la loro storia, le abitudini, la giornata tipo. Serve solo custodirli per dieci giorni, somministrargli Depakin, Zyprexa, Risperdal, Seroquel. Serve che non tornino malconci. Serve dare la possibiltà alla famiglia di prendersi quel benedetto riposo, senza urla, senza provare vergogna, senza crisi violente, senza Depakin, Zyprexa, Risperdal, Seroquel. Certo! ne hanno tutto il diritto, loro, le famiglie. Anzi dieci giorni sono anche troppo pochi!
Sono io che non posso farcela. Non in questo modo, non con queste enormi responsabilità, sapendo già prima di partire che fallirò. Ecco perché non ho più dato la mia disponibilità a partire per i soggiorni. Ecco perché non partirò mai più. Mi dispiace per aver preso questa decisione. Ma ho una professionalità da difendere e credo in quel che faccio. Non voglio sentirmi usata e sfruttata. Voglio che il mio intervento non sia vano ma che abbia un inizio e una fine, una reciprocità, uno scambio, un arricchimento dall’esterno. Mi piacerebbe che fosse un intervento aperto, non un circolo chiuso e che ogni attore contribuisca ad arricchire il mio lavoro e quello degli altri. Altrimenti si rischia di perdere la voglia di fare. Altrimenti si pensa solo a sopravvivere e non a creare.
Altrimenti si lavora con la tristezza e con la rabbia repressa…e nonostante gli anni di formazione si inizia a pensare di dover cambiar lavoro.