I “senza nome” del lavoro sociale

La sveglia suona anche per me la mattina. Il telefono acceso prova a ricordare i miei impegni giornalieri. Sono Sharon, diretta verso casa di Irene, è anziana, sola e allettata. Sono Matteo che varca la soglia della scuola per supportare Riccardo, alunno autistico, mentre Sofia al suono della campanella è pronta a parlare la lingua dei segni in classe di Alberto. Ma sono anche Angela che si preoccupa di svegliare e mandare a scuola Aisha, Celeste, Jean, Brandon, Babu, Giulio, Jasmine, Rocco in Casa Famiglia. Poi sono Lucio che accompagna Salvatore al centro diurno per partecipare al laboratorio di teatro. Sono un assistente domiciliare, un AEC, assistente specialistico, operatore di casa famiglia/centro diurno/comunità, un mediatore culturale, insomma sono uno qualsiasi che ogni giorno lavora nel sociale con  persone che chiamiamo utenti con diverse disabilità etc. o con disagi.  Sono proprio uno di quelli che lavorano con ogni tipo di contratto, soci e/o dipendenti di cooperative sociali, ingaggiati “indirettamente” dalle famiglie, reclutati dalle scuole, i quali possono percepirsi fortunati  perchè guadagnano  7 euro l’ora e gli viene corrisposto lo stipendio con un solo mese di ritardo. Qualcuno sembra dire che bravi, che volenterosi, anche io vorrei aiutare, ma…

Lo specchio rotto del sociale

Ma voglio guardarmi bene in quello specchio perchè inizio a intravedere che sono anche Francesca, che all’ennesima crisi di Simone che l’ha graffiata sul volto, perde il controllo e risponde con uno schiaffo. E sono Omar che mentre cambia  il pannolone a Giovanni gli si rompe il guanto di lattice di qualità scadente. Sono Marco che raggiunto al telefono gli viene comunicato poche ore prima che il suo orario di lavoro cambia. Sono Paolo che ci vorrebbe capire qualcosa con Augusto ma non esiste una supervisione. Sono Eva che non sopporta più che la maestra abbia isolato il bambino in un banchetto solo o Fabio che quando lavora a scuola non ha diritto a mangiare a mensa e non viene pagato quando si assenta il bambino. E ancora sono Amal che, inviato senza il doppio operatore, viene aggredito da Giuseppe, giovane dal fisico mastodontico affetto da autismo grave. Sono anche Consuelo che dopo essersi permessa di criticare l’organizzazione del servizio subisce il mobbing quotidiano senza incontrare la solidarietà dei colleghi. Sono Fatima, madre di famiglia, che lavora tanto per guadagnare poco mentre i figli crescono sotto la minaccia dello sfratto. Sono Elena che lavora all’inserimento lavorativo di Serena ma gli ingranaggi del capitalismo non permettono tempi e modalità diversi. Sono Rachele che fa il doppio del lavoro con Teresa visto che prima ci lavorava anche Federica, attualmente senza lavoro. Infine sono Corrado che aspetta da 6 mesi lo stipendio mentre commissariano la cooperativa per cui lavoro, c’è Grazia che ha rinunciato a chiedere ciò che gli spetta. Stress, malessere, sfruttamento, precarietà, rassegnazione investono una categoria di lavoratori che operano per favorire l’autonomia e l’inclusione di soggetti disabili o disagiati. Così ci ritroviamo ad essere noi stessi esclusi dalla società ed a dover affrontare la precarietà della nostre vite. Ma se coloro che lavorano nel sociale non vengono riconosciuti come possiamo pensare che le vite delle persone che ci vengono affidate possano migliorare?

Socialworkers: uno spazio per condividere le autonarrazioni

Lo spazio della narrazione è pensato com un foglio in bianco, ancora da scrivere. E’ pensato come una mancanza, un vuoto che ci auguriamo possa trasformarsi attraverso la voce di operatrici ed operatori sociali che non solo vogliono affermare l’esistenza davanti all’invisibilizzazione o esporre le problematicità riscontrate sul lavoro, ma desiderano attraverso il racconto delle esperienze quotidiane innescare un processo che provi a ri-articolare le nostre vite fratturate, dare dignità alle nostre soggettività e quelle altrui con cui lavoriamo. La narrazione autobiografica di esperienze dalla vita lavorativa non è pensata in termini narcisistici, tantomeno lo spazio vuole essere uno sfogatoio, nemmeno un momento di terapia di gruppo. L’autonarrazione vuole essere uno spazio per ri-conoscere le criticità che riscontriamo sul lavoro e riuscire a condividerle per capire insieme da dove si originano e stimolare pratiche di resistenza collettiva.